Per non piangere da solo.

C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo.
Fabrizio De André

Harrogate, è fine settembre. Il cielo è color carta da zucchero, ombreggiato di arancione, nei minuti appena successivi al tramonto. La piazza è piena, c’è un palco con un podio vuoto e musica che naviga fuori dagli amplificatori. La gente indossa impermeabili e stivali di gomma, ha chiuso da poco gli ombrelli. E’ tutto in ordine, la linea del traguardo si è svuotata da delirio e rumore di biciclette che frenano.

C’è un ragazzo che trema dal freddo, ha smesso di sorridere da qualche istante. Ha un viso teso, appena ripulito dal fango di una strada piena di pozzanghere. Capelli biondi, occhio azzurro e vivo. Ma di una vita splendida, una di quelle che non ci si stanca mai di sentir raccontare. Giovane, un po’ spavalda, un po’ ingenua. Piena di speranza e desiderio.

Nils Eekhoff è olandese, l’arancione del riverbero del cielo lo porta addosso. E’ appena uscito dal van dove è posizionato il var, dove i giudici stanno decidendo che farsene di dati e immagini che lo rendevano colpevole di un passaggio di borraccia un po’ troppo lungo e che, secondo i giudici, lo ha aiutato a rientrare in gruppo dopo una caduta. Ha il volto scuro, guarda fisso davanti a lui, contando i ciuffi d’erba per distrarsi, tremando dal freddo.

Chiede un abbraccio alla persona che è accanto a lui, per non piangere da solo.

“Tienimi con te, che non sto in piedi” sussurrano quelle lacrime grigie. La sua mente che lo sta trascinando in basso, in un buco nero di delusione. Quel corpo esile e leggiadro, ora così pesante. Rughe di dolore su quella pelle liscia e innocente. Lo guardano tutti, con compassione forse, mentre lui sta morendo dentro. Era campione del mondo, ora non più.

Tornerà tua, Nils. E questa volta, per sempre. E’ una promessa.

Credit: Jan van der Weij

Harrogate è cupa, qualche giorno dopo. Nuvole nere hanno scaricato pioggia incessante e prepotente per moltissime ore, incuranti di omini in bicicletta che non attendevano altro che quel pomeriggio di fine settembre da molti mesi. Chi perché per la prima volta partecipava ad un campionato del mondo, chi perhé sognava l’arcobaleno al termine della pioggia.

A non molti chilometri dal traguardo, sono in cinque davanti. Un olandese, che è il favorito, due italiani, un danese e uno svizzero. Sono stanchi, distrutti, con enormi borse sotto gli occhi, gonfi per la fatica di oltre duecento chilometri passati ad incassare botte di freddo e acqua. All’improvviso, quello con la maglia arancione sembra non aver più un briciolo di energia e si lascia andare. Gli altri proseguono, consapevoli che nessuno potrà più riprenderli.

Uno dei due italiani si chiama Matteo. E’ capitano della sua squadra, è uno di quelli che non aspettavano altro che una situazione del genere. Sa che può vincere, sa che se lo meriterebbe. Restano poi in tre, il suo compagno non ne può più, le gambe fanno troppo male. La volata sarà a tre.

Matteo sembra tranquillo, ma forse è in apnea totale. Sta andando tutto bene, la linea d’arrivo è a poche centinaia di metri. Pochissimi rispetto a quelli che già ha fatto. E sta andando tutto bene. E’ lui che parte per primo, è davanti. Qualche pedalata, ed è dietro. Sempre più dietro. Ha vinto un altro. Matteo è secondo. Taglia il traguardo, sembra incredulo, frastornato. E’ fradicio. E forse incazzato.

Chiede un abbraccio a sua moglie Claudia, per non piangere da solo.

Sul podio, Matteo ha l’argento al collo e il vuoto negli occhi. Conta i secondi per poter non essere più preda dei flash dei fotografi. Stanco e infreddolito, sfinito e sommerso, la solitudine è l’unica casa accogliente in quegli attimi. Perché, a volte, abbiamo solo bisogno di stare con noi stessi, per non mostrarci vulnerabili. Per orgoglio, forse. Altre, invece, la pioggia è troppo forte sulla testa, e non possiamo piangere da soli.

Ma sei stato bravo, Matteo. Sappilo. E se ancora nessuno te lo ha detto, te lo dico io. Ci saranno altri Mondiali, ci sarà di nuovo l’arcobaleno. E’ una promessa.

Credits: Bettini